A cura di Rossella Ceccarini
T.A.R. REGIONE CALABRIA, Sezione Staccata di Reggio Calabria, 20 gennaio 2023, n. 90
Con la sentenza n. 90/2023 il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria, Sezione Staccata di Reggio Calabria, nel rigettare il ricorso ha ribadito che l’interdittiva antimafia costituisce una misura preventiva che prescinde dall’accertamento di singole responsabilità penali nei confronti dei soggetti che ne sono colpiti, che si fonda sugli accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia valutati, per la loro rilevanza, dal Prefetto territorialmente competente e che è volta a colpire l’azione della criminalità organizzata impedendole di avere rapporti con la Pubblica Amministrazione. Per la sua natura cautelare e la sua funzione di massima anticipazione della soglia di prevenzione, non richiede la prova di un fatto ma solo la presenza di una serie di indizi, in base ai quali non sia illogico o inattendibile ritenere la sussistenza di un collegamento con organizzazioni mafiose o di un condizionamento da parte di queste. Proprio per questi motivi deve ritenersi esclusa ogni presunzione di irrilevanza dei rapporti di parentela, ove essi, per numero e qualità, risultino indizianti di una situazione complessiva tale da non rendere implausibile un collegamento, anche non personale e diretto, tra soggetti imprenditori ed ambienti della criminalità organizzata. Tale valutazione, poi, per il collegio è rafforzata dal rilievo che le concessioni per uso pascolo o agricolo, oggetto dell’istanza del ricorrente, risultano «appetibili per la malavita organizzata, tenuto conto del rilevante flusso di finanziamenti, contributi o agevolazioni pubbliche da cui sono alimentate».
La questione appellata trae origine dall’istruttoria svolta dall’autorità prefettizia ed eseguita su richiesta inoltrata dai Comuni di Africo e Samo, nonché dall’ARCEA di Catanzaro, intesa ad ottenere il rilascio dell’informazione antimafia ex artt. 91 e 100 d.lgs. n. 159/2011 nei confronti dei ricorrenti. Dall’istruttoria compiuta è emerso un quadro indiziario reputato dall’autorità prefettizia di sicura rilevanza con rischio di infiltrazione delle consorterie criminali nell’impresa del ricorrente che aveva formulato istanza di concessione terreni in fida pascolo. Tale rischio si desumeva: 1) dai pregiudizi penali del ricorrente; 2) dal fatto che la moglie ed il figlio del ricorrente erano stati attinti da analoghi provvedimenti interdittivi; 3) dall’articolatissima rete di parentela e/o affinità del ricorrente con soggetti gravati da significativi precedenti penali alcuni dei quali già condannati per truffa aggravata (art. 640-bis c.p.) e/o ritenuti vicini o affiliati alla cosca; 4) dal rilievo che la materia delle concessioni di terreno demaniale per uso agricolo o pascolivo, i cui destinatari possono peraltro fruire di finanziamenti pubblici contributi o agevolazioni di natura fiscale e previdenziale, è notoriamente esposta ai tentativi di infiltrazione mafiosa della criminalità organizzata.
Il ricorrente ha impugnato il provvedimento interdittivo in questione, contestandone il difetto di motivazione e l’eccesso di potere per travisamento dei fatti in quanto non vi sarebbe la necessaria dimostrazione della sussistenza di elementi dai quali sia probabile – e non semplicemente possibile – accertare la sussistenza del rischio di infiltrazione criminosa sulle scelte gestionali dell’impresa. Pertanto il provvedimento sarebbe stato emesso esclusivamente in considerazione dei legami di parentela del ricorrente, omettendo di indicare elementi concreti idonei a dimostrare un effettivo legame e collegamento tra l’attività imprenditoriale del ricorrente e le consorterie criminali. Infine, è stata lamentata l’inidoneità dei pregiudizi penali del ricorrente a fondare il giudizio di permeabilità della sua azienda ai tentativi di infiltrazione della criminalità organizzata.
Il Collegio, nel rigettare il ricorso ritenendo che gli elementi di fatto descritti e richiamati nel provvedimento interdittivo sorreggono la ragionevolezza di quest’ultimo, ha anche sottolineato che i reati commessi dal ricorrente e dai suoi parenti ed affini rientrano nei «reati “spia”» che costituiscono per l’art. 84, comma 4, lett. a), d.lgs. n. 159/2011 indice sintomatico del pericolo attuale dell’infiltrazione mafiosa nella gestione dell’impresa.