A cura di Rossella Ceccarini
CONSIGLIO DI STATO, Sezione Terza in sede giurisdizionale, sentenza n. 4569 pubblicata il 08.05.2023
La Terza Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza n. 4569 pubblicata l’8 maggio 2023, nel respingere l’appello proposto avverso la sentenza emessa dal TAR per la Campania, sede di Napoli, in tema di misure di prevenzione, ha esaminato l’ipotesi in cui il modus vivendi di un imprenditore (nel caso di specie imprenditore sottoposto da lunga data e continuativamente, senza avere mai denunciato – né essersi mai costituito parte civile nei processi penali -, ad estorsione da parte del clan […] e traendo vantaggio dal proprio rapporto privilegiato con il clan consistente nel riuscire a lavorare sempre, a differenza degli imprenditori che viceversa subivano intimidazioni e azioni violente per dissuaderli dal perseverare), seppure sia inidoneo sul piano penale a configurare una ipotesi di “imprenditore colluso”, ben può tuttavia costituire un indice più che ragionevole per indurre un giudizio di permeabilità dell’imprenditore medesimo al condizionamento malavitoso, in quanto proclive a ricercare modalità per convivere con l’assoggettamento al controllo delinquenziale, il cui predominio viene in tal modo ad essere sostanzialmente accettato e, in definitiva (ancorché del tutto involontariamente), favorito e agevolato nel dispiegamento della sua forza intimidatrice di controllo del territorio.
Il caso al vaglio del Consiglio di Stato riguardava una società (…) che ha proposto appello avverso la sentenza con la quale il TAR per la Campania, sede di Napoli, Sezione Prima, ha respinto il suo ricorso diretto ad ottenere l’annullamento dell’informativa antimafia con la quale la Prefettura di Caserta ha accertato la presunta sussistenza nei suoi confronti delle “situazioni di cui all’art. 84, comma 4 e all’art. 97, comma 6 del D.lgs. n. 159”, nonché del provvedimento dell’ANAC del 3 novembre 2021 “di comunicazione di avvenuta segnalazione e dell’inserimento nel casellario della relativa annotazione e del provvedimento di risoluzione delle convenzioni degli incentivi da parte del GSE”.
Il Consiglio di Stato a tal proposito ha chiarito come anche la “contiguità soggiacente” alle consorterie mafiose, e non solo quella “compiacente”, possa fondare il giudizio negativo dell’Autorità prefettizia: “non si può dubitare che l’interpretazione giurisprudenziale tassativizzante, a partire dalla sentenza n. 1743 del 3 maggio 2016, consenta ragionevolmente di prevedere l’applicazione della misura interdittiva in presenza delle due forme di contiguità, compiacente o soggiacente, dell’impresa ad influenze mafiose, allorquando, cioè, un operatore economico si lasci condizionare dalla minaccia mafiosa e si lasci imporre le condizioni (e/o le persone, le imprese e/o le logiche) da questa volute o, per altro verso, decida di scendere consapevolmente a patti con la mafia nella prospettiva di un qualsivoglia vantaggio per la propria attività” (Cons. Stato, sez. III, 5 settembre 2019, n. 6105). Secondo il Consiglio di Stato in realtà il Codice antimafia desume il pericolo di infiltrazione mafiosa da entrambe le figure, quindi, anche dall’imprenditore vittima che non abbia denunciato l’estorsione. Non è necessario essere compartecipe dell’attività criminosa o condividerne i fini, potendosi desumere il pericolo di infiltrazione mafiosa anche dalla semplice connivenza.
Nella sentenza il Consiglio di Stato afferma che la legittimità dell’atto amministrativo deve essere valutata alla stregua del quadro fattuale e giuridico esistente alla data della sua adozione e non con riferimento al tempo in cui viene valutato in giudizio. In ogni caso, la formulazione dell’art. 84, comma 4, del Codice antimafia del 2011 (secondo cui: “4. Le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa che danno luogo all’adozione dell’informazione antimafia interdittiva di cui al comma 3 sono desunte . . . c . . . dall’omessa denuncia all’autorità giudiziaria dei reati di cui . . . ”) ha un valore ricognitivo di una realtà fattuale, ma non esclude in alcun modo che le medesime condotte poste in essere nel periodo precedente all’entrata in vigore della citata disposizione fossero valutabili e non fossero prive del loro oggettivo significato di indice della sussistenza di situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa. In proposito la giurisprudenza ha peraltro non da ora chiarito che la sussistenza di possibili tentativi di infiltrazione mafiosa può essere dedotta da un’ampia casistica di elementi indiziari, che non costituiscono un numerus clausus e non consistono solo nelle circostanze desumibili dalle sentenze di condanna per particolari delitti e dalle misure di prevenzione antimafia, ma possono emergere da tutti gli altri provvedimenti giudiziari, qualunque sia il loro contenuto dispositivo, dai diversi rapporti di parentela, amicizia, colleganza, frequentazione, collaborazione, che per intensità e durata indichino un verosimile pericolo di condizionamento criminale, nonché da vicende anomale nella formale struttura o nella concreta gestione dell’impresa, sintomatiche di cointeressenza o di condiscendenza dell’impresa e dei suoi soci, amministratori, gestori di fatto con il fenomeno mafioso nelle sue più varie forme (ex multis, Cons. Stato, sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743). È stato altresì precisato che l’interdittiva antimafia può essere legittimamente fondata anche su fatti che sono risalenti nel tempo, purché dall’analisi complessiva delle vicende esaminate emerga, comunque, un quadro indiziario che sia idoneo a giustificare il necessario giudizio di attualità e di concretezza del pericolo di infiltrazione mafiosa (così, ad esempio, Cons. Stato, sez. V, 11 aprile 2022, n. 2712; Cons. Stato, sez. V, 6 giugno 2022, n. 4616).