A cura di Rossella Ceccarini
CONSIGLIO DI STATO, Sezione Terza, sentenza n. 5097 del 13.04.2023, depositata il 23.05.2023
La Terza Sezione del Consiglio di Stato con la sentenza n. 5097 del 13.04.2023 depositata il 23.05.2023 ha accolto l’appello proposto dal Ministero dell’Interno e dalla Prefettura di Napoli e ribadito che l’interdittiva antimafia è provvedimento amministrativo al quale deve essere riconosciuta natura cautelare e preventiva, in un’ottica di bilanciamento tra la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e la libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost.
Il Consiglio di Stato ribadisce quanto è stato già puntualmente affermato, ossia che l’interdittiva antimafia costituisce “una misura volta – ad un tempo – alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica Amministrazione” (Cons. Stato, sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743). Tale provvedimento, infatti, mira a prevenire tentativi di infiltrazione mafiosa nelle imprese, volti a condizionare le scelte e gli indirizzi della Pubblica Amministrazione e si pone in funzione di tutela sia dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento, riconosciuti dall’art. 97 Cost., sia dello svolgimento leale e corretto della concorrenza tra le stesse imprese nel mercato, sia, infine, del corretto utilizzo delle risorse pubbliche (Cons. Stato, sez. III, 31 dicembre 2014, n. 6465). Poste tali generali coordinate, la giurisprudenza è stata costante, prima dei recenti interventi legislativi sul punto, nel ritenere giustificata da esigenze di speditezza ex art. 7 l. n. 241/1990 e dalla natura in senso lato cautelare del provvedimento l’inapplicabilità delle ordinarie garanzie partecipative nella particolare materia in esame (cfr. Cons. Stato, sez. III, n. 4555/2016, secondo cui va richiamato il consolidato indirizzo per il quale l’Amministrazione è esonerata dall’obbligo di comunicazione di cui all’art. 7 l. 7 agosto 1990, n. 241, relativamente all’informativa antimafia, nonché da altre procedure partecipative, atteso che si tratta di procedimento in materia di tutela antimafia, come tale intrinsecamente caratterizzato da profili del tutto specifici connessi ad attività di indagine, oltre che da finalità, da destinatari e da presupposti incompatibili con le procedure partecipative, nonché da oggettive e intrinseche ragioni di urgenza). Anche di recente, Cons. Stato, sez. III, n. 2854/2020, ha ribadito che “(…) il codice antimafia, senza escludere a priori e del tutto la partecipazione procedimentale (del resto ammessa per gli analoghi provvedimenti di iscrizione nella c.d. white list, emessi, però, su richiesta di parte ai sensi dell’art. 1, comma 52, della L. n. 190 del 2012: v., sul punto, Cons. St., sez. III, 20 settembre 2016, n. 3913), ne rimette, con l’art. 93, comma 7, D.L.vo n. 159 del 2011, la prudente ammissione alla valutazione dell’autorità preposta all’emissione del provvedimento interdittivo in termini di utilità rispetto al fine pubblico perseguito. Il principio del giusto procedimento, del resto, non ha una valenza assoluta, ma ammette deroghe limitate ad ipotesi eccezionali dovute alla tutela di interessi superiori afferenti alla tutela dell’ordine pubblico, come quella in esame, e proporzionate (…)”.
Si tratta di un’incapacità giuridica prevista dalla legge a garanzia di valori costituzionalmente garantiti e conseguente all’adozione di un provvedimento adottato all’esito di un procedimento normativamente tipizzato e nei confronti del quale vi è previsione delle indispensabili garanzie di tutela giurisdizionale del soggetto di esso destinatario (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 3 del 2018); anche in considerazione della natura non sanzionatoria di tali provvedimenti in uno alla nota opera giurisprudenziale di affinamento e specificazione dei relativi presupposti rilevanti, a partire dal fondamentale arresto del Consiglio di Stato n. 1743 del 2016, recante un significativo “catalogo” esteso alla casistica non tipizzata dal legislatore: le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa, tipizzate dal legislatore, comprendono dunque una serie di elementi del più vario genere e, spesso, anche di segno opposto, frutto e cristallizzazione normativa di una lunga e vasta esperienza in questa materia, situazioni che spaziano dalla condanna, anche non definitiva, per taluni delitti da considerare sicuri indicatori della presenza mafiosa (art. 84, comma 4, lett. a, d.lgs. n. 159/2011), alla mancata denuncia di delitti di concussione e di estorsione, da parte dell’imprenditore, dalle condanne per reati strumentali alle organizzazioni criminali (art. 91, comma 6, d.lgs. n. 159/2011), alla sussistenza di vicende organizzative, gestionali o anche solo operative che, per le loro modalità, evidenzino l’intento elusivo della legislazione antimafia. Esistono poi, come insegnano l’esperienza applicativa della legislazione in materia e la vasta giurisprudenza formatasi sul punto nel corso di oltre venti anni, numerose altre situazioni, non tipizzate dal legislatore, che sono altrettante ‘spie’ dell’infiltrazione (nella duplice forma del condizionamento o del favoreggiamento dell’impresa). Gli elementi di inquinamento mafioso, ben lungi dal costituire un numerus clausus, assumono forme e caratteristiche diverse secondo i tempi, i luoghi e le persone e sfuggono, per l’insidiosa pervasività e mutevolezza, anzitutto sul piano sociale, del fenomeno mafioso, ad un preciso inquadramento. Quello voluto dal legislatore, ben consapevole di questo, è dunque un catalogo aperto di situazioni sintomatiche del condizionamento mafioso. L’autorità prefettizia deve valutare perciò il rischio che l’attività d’impresa possa essere oggetto di infiltrazione mafiosa, in modo concreto ed attuale, sulla base dei seguenti elementi: a) i provvedimenti ‘sfavorevoli’ del giudice penale; b) le sentenze di proscioglimento o di assoluzione; c) la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d.lgs. n. 159/2011; d) i rapporti di parentela; e) i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia; f) le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa; g) le vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa; h) la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi ‘benefici’; i) l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità.
Il Consiglio di Stato richiama anche la giurisprudenza della medesima Sezione (Cons. Stato, sez. III, n. 1743 del 2016) secondo cui: “(…) Se di per sé è irrilevante un episodio isolato ovvero giustificabile, sono invece altamente significativi i ripetuti contatti o le ‘frequentazioni’ di soggetti coinvolti in sodalizi criminali, di coloro che risultino avere precedenti penali o che comunque siano stati presi in considerazione da misure di prevenzione (…) Tali contatti o frequentazioni (anche per le modalità, i luoghi e gli orari in cui avvengono) possono far presumere, secondo la logica del “più probabile che non”, che l’imprenditore – direttamente o anche tramite un proprio intermediario – scelga consapevolmente di porsi in dialogo e in contatto con ambienti mafiosi (…) Quand’anche ciò non risulti punibile (salva l’adozione delle misure di prevenzione), la consapevolezza dell’imprenditore di frequentare soggetti mafiosi e di porsi su una pericolosa linea di confine tra legalità e illegalità (che lo Stato deve invece demarcare e difendere ad ogni costo) deve comportare la reazione dello Stato proprio con l’esclusione dell’imprenditore medesimo dal conseguimento di appalti pubblici e comunque degli altri provvedimenti abilitativi individuati dalla legge (…) In altri termini, l’imprenditore che – mediante incontri, telefonate o altri mezzi di comunicazione, contatti diretti o indiretti – abbia tali rapporti (e che si espone al rischio di esserne influenzato per quanto riguarda le proprie attività patrimoniali e scelte imprenditoriali) deve essere consapevole della inevitabile perdita di ‘fiducia’, nel senso sopra precisato, che ne consegue (perdita che il provvedimento prefettizio attesta, mediante l’informativa)”.