A cura di Rossella Ceccarini
CONSIGLIO DI STATO, Sezione III Penale, Sentenza n. 7061 del 22.06.2023, depositata il 19.07.2023
La Terza Sezione del Consiglio di Stato con sentenza n. 7061 del 22 giugno 2023, pubblicata il 19 luglio 2023, ha respinto l’appello proposto avverso la sentenza emessa dal Tribunale Ammnistrativo Regionale per la Calabria – Sezione distaccata di Reggio Calabria e ha affermato che, secondo la consolidata interpretazione giurisprudenziale, l’adozione delle misure interdittive, giustificata dall’accertata sussistenza, a carico dell’impresa da esse attinta, di “tentativi di infiltrazione mafiosa” ex art. 91, comma 5, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, costituisce espressione della funzione di “difesa sociale avanzata” che lo strumento in questione è normativamente finalizzato a realizzare.
Il Consiglio di Stato nella motivazione della sentenza ha affermato che il legislatore, attraverso la sua previsione, ha voluto affiancare al classico sistema sanzionatorio di matrice penale, destinato a reprimere ex post il fenomeno mafioso nelle sue effettive manifestazioni criminose, uno strumento inteso ad allargare la rete di protezione della società e dell’economia dalle incursioni dei gruppi criminali stabilmente organizzati, in quei settori in cui maggiormente pressante si rivela l’esigenza di intervenire ex ante, prima cioè che la “conquista” da parte delle mafie dei territori ancora “incontaminati” si realizzi definitivamente: settori individuati in tutti quelli in cui siano direttamente coinvolti – come reso evidente dall’attribuzione all’Amministrazione di poteri autorizzatori, concessori, attributivi di vantaggi economici e preordinati all’instaurazione di rapporti contrattuali tra la stessa e le imprese private – interessi pubblici e, correlativamente, venga in rilievo l’impiego di pubbliche risorse. Tale ampliamento è stato appunto realizzato mediante l’attribuzione all’autorità prefettizia del compito di prevenire l’ingerenza della mafia nei suddetti settori “sensibili”, attraverso la rilevazione dei “segnali” che essa possa concretizzarsi, facendo scattare la barriera atta ad impedirla – nella forma più radicale rappresentata dall’estromissione dell’impresa interessata da ogni possibilità di interagire con la P.A. – laddove, sulla scorta di un’approfondita e meditata analisi di tutte le circostanze di fatto acquisite in sede istruttoria, emerga il ragionevole rischio che la gestione aziendale sia condizionabile dalla criminalità organizzata. La diversa funzione che il potere interdittivo è preordinato a realizzare rispetto a quello repressivo affidato al magistrato penale ha consentito alla giurisprudenza amministrativa di affinare progressivamente le condizioni per il suo legittimo esercizio: ciò che è avvenuto sia in “negativo”, attraverso cioè la sottolineatura delle ontologiche differenze che esso presenta rispetto alla parallela sanzione penale (differenze che si riflettono nell’utilizzo di un diverso standard probatorio ai fini dell’enucleazione del pericolo di condizionamento, non legato all’esigenza di accertamento del fatto-reato “oltre ogni ragionevole dubbio”), sia in “positivo”, ovvero conferendo significato operativo alla formula sintetica del “più probabile che non”, per esso appositamente coniata. Così, se dal primo punto di vista è stato limpidamente affermato che “la misura interdittiva, essendo il potere esercitato espressione della logica di anticipazione della soglia di difesa sociale, finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività della criminalità organizzata, non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo sull’esistenza della contiguità dell’impresa con organizzazione malavitose, e quindi del condizionamento in atto dell’attività di impresa, ma può essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa sussistere il tentativo di ingerenza nell’attività imprenditoriale della criminalità organizzata” (Cons. Stato, Sez. III, 6 giugno 2022, n. 4616), dal secondo è stato altrettanto plasticamente chiarito che la valutazione prefettizia “deve fondarsi su elementi gravi, precisi e concordanti che, alla stregua della ‘logica del più probabile che non’, consentano di ritenere razionalmente credibile il pericolo di infiltrazione mafiosa in base ad un complessivo, oggettivo, e sempre sindacabile in sede giurisdizionale, apprezzamento dei fatti nel loro valore sintomatico” e che “l’equilibrata ponderazione dei contrapposti valori costituzionali in gioco, la libertà di impresa, da un lato, e la tutela dei fondamentali beni che presidiano il principio di legalità sostanziale sopra richiamati, richiedono alla Prefettura un’attenta valutazione di tali elementi, che devono offrire un quadro chiaro, completo e convincente del pericolo di infiltrazione mafiosa, e a sua volta impongono al giudice amministrativo un altrettanto approfondito esame di tali elementi, singolarmente e nella loro intima connessione, per assicurare una tutela giurisdizionale piena ed effettiva contro ogni eventuale eccesso di potere da parte del Prefetto nell’esercizio di tale ampio, ma non indeterminato, potere discrezionale” (Cons. Stato, Sez. III, 9 febbraio 2017, n. 565). Baluardo dell’aderenza del potere de quo, nel suo concreto esercizio, al principio di legalità sostanziale che innerva qualunque potere amministrativo foriero di effetti restrittivi per le libertà del cittadino e dell’impresa costituzionalmente sancite, così come della effettività della tutela giurisdizionale che, forte di una legittimazione altrettanto garantita sul piano costituzionale, il soggetto inciso da quel potere è abilitato ad attivare, è l’esigenza che la misura interdittiva sia ancorata ad elementi concreti, sia nella loro oggettiva sussistenza che nella loro espressività sintomatica del pericolo di condizionamento, anche se questa debba ricevere significato (non in sé, ma) in una visione globale e coordinata dei singoli tasselli della prognosi indiziaria, e che il riscontro dei tentativi di infiltrazione da parte del Prefetto si collochi saldamente all’interno di quell’area di ragionevolezza, plausibilità e verosimiglianza che sola è idonea a renderla immune da un sindacato giurisdizionale che non voglia né – coerentemente con i suoi limiti costituzionali – possa spingersi fino a penetrare e smembrare il nucleo di merito della valutazione amministrativa discrezionale. Tra gli elementi cui il Prefetto può attribuire rilievo in un’ottica indiziaria, un peso non secondario – sia alla luce di un’analisi di carattere statistico, sia perché rappresentano una delle più efficaci “cartine di tornasole” della permeabilità mafiosa dell’impresa – rivestono i rapporti parentali tra gli appartenenti – in uno dei diversi ruoli a tal fine rilevanti – alla struttura imprenditoriale attenzionata e soggetti, formalmente estranei ad essa, nei cui confronti siano acclarati, eventualmente nella concorrente sede penale, profili di contiguità alla criminalità mafiosa, se non di partecipazione ad uno dei sodalizi nei quali essa tende a svilupparsi ed organizzarsi.