A cura di Rossella Ceccarini

CORTE DI CASSAZIONE, Sezione V Penale, sentenza n. 47900 del 13.10.2023 depositata il 30.11.2023

La Sezione Quinta della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 47900 depositata il 30.11.2023, ha annullato senza rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Milano assolvendo il revisore contabile dal reato di concorso nel delitto di bancarotta impropria da reato societario enunciando il seguente principio di diritto: «La fattispecie del falso nelle relazioni dei revisori non ha attinenza né con l’art. 2621 c.c. né con l’art. 223 comma secondo, n. 1, L.F. e, per tale ragione, non può ex se rappresentare una modalità di concorso nei ridetti reati propri, pena la torsione dei principi di legalità e di tipicità».

La vicenda sottoposta al vaglio degli Ermellini ha ad oggetto l’impugnazione della sentenza della Corte d’Appello di Milano con la quale è stata confermata la condanna di tre imputati (due imputati per aver svolto l’incarico di revisori contabili mentre il terzo quale presidente del consiglio di amministrazione) per concorso nel delitto di bancarotta impropria da reato societario con riguardo al fallimento di una società per azioni. Gli imputati sono stati difatti ritenuti responsabili del delitto di cui all’art. 223, comma 2, n. 1 l.fall. in relazione al reato di falso in bilancio (art. 2621 c.c.). Avverso la pronuncia hanno fatto ricorso per Cassazione gli imputati. Entrambi i ricorsi sono stati accolti.

La Suprema Corte, innanzitutto, ha precisato che la questione ha ad oggetto fatti-reato che ricadono ratione temporis nell’alveo della disciplina dell’attività di revisione anteriore al d.lgs. n. 39/2010; si pongono, cioè, nella formulazione dei reati societari anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 69/2015. Concernono, infine, una società di capitali non quotata in borsa. La Corte ha puntualizzato che il revisore esula dai soggetti qualificati ex art. 223 l.fall., sicché può essere chiamato a rispondere del reato di bancarotta societaria soltanto in veste di estraneo, secondo le norme generali sul concorso. Tale affermazione segna la distanza «normativa» che separa amministratori e sindaci, da un lato, e revisori dall’altro, secondo un canone legislativo non sufficientemente recepito dall’editto accusatorio che – equiparandone invece le posizioni (“se gli amministratori avessero correttamente formato il bilancio e i sindaci e i revisori avessero svolto la loro funzione legale, avrebbero per contro dovuto evidenziare nel conto economico la seguente perdita dell’esercizio”) – pone i revisori sul medesimo piano dei soggetti qualificati, così da ingenerare equivoci a livello contestativo. L’evoluzione normativa dello statuto penale dei revisori è tracciata dalla decisione delle Sezioni Unite n. 34476/ 2011: all’epoca dei fatti, l’attività del revisore era disciplinata dall’art. 2409-ter c.c. e la falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione era punita dall’art. 2624 c.c. L’art. 2624 c.c., qui in rilievo ratione temporis, al primo comma prevede(va) un’ipotesi contravvenzionale di reato «proprio», di pericolo, assistita da dolo specifico e intenzionale, consistente nel fatto dei responsabili della revisione che, nelle relazioni o in altre comunicazioni, attestano il falso od occultano informazioni concernenti la situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società sottoposta a revisione, in modo idoneo a indurre in errore i destinatari delle comunicazioni sulla predetta situazione.

La Corte Suprema ha ritenuto condivisibile la requisitoria del Procuratore Generale secondo cui l’omessa dolosa esecuzione dei controlli contabili da parte dei revisori ha rappresentato un antefatto che è materialmente sfociato in un’attività contra legem, di tipo indubbiamente commissivo, costituita dall’avvenuta predisposizione da parte degli imputati di plurime relazioni con cui è stato espresso un giudizio pienamente positivo circa la chiarezza e correttezza dei bilanci e circa lo stimabile sviluppo della società, occultando la fittizietà di una serie di operazioni. Nelle sentenze di merito si registra uno scarto rilevante tra situazione accertata in concreto, che attiene a una fattispecie commissiva, e l’impostazione dogmatica, completamente sbilanciata sul concorso per omissione e sulla individuazione di una posizione di garanzia in capo ai revisori (con scarsa attenzione all’effettiva sussistenza di poteri impeditivi). La fattispecie del falso nelle relazioni dei revisori, ha precisato la Quinta Sezione, non ha attinenza né con l’art. 2621 c.c. né con l’art. 223 comma 2, n. 1, l.fall. e, per tale ragione, non può ex se rappresentare una modalità di concorso nei ridetti reati propri, pena la torsione dei principi di legalità e di tipicità.

Come nota autorevole dottrina, nel delineare le fattispecie di bancarotta impropria il legislatore ha inteso rafforzare l’imposizione di particolari doveri, correlati a penetranti poteri, posti dalla normativa civilistica a carico di determinati soggetti per la tutela dell’impresa individuale o della società, dei soci e dei creditori sociali. E, in tale ottica, ha tenuto conto della somma dei poteri che si concentrano nell’organo interno di gestione (che governa i meccanismi societari, è informato delle notizie più riservate, ha accesso alle fonti di finanziamento, domina le attività patrimoniali, effettua le scelte operative, ecc.) e in quello, sempre interno, di controllo (eletto dalla stessa maggioranza assembleare che esprime gli amministratori, vale a dire i soggetti la cui attività è assoggettata al controllo). A tutto ciò il revisore, figura esterna agli organi societari, rimane estraneo, soprattutto nel sistema precedente alla riforma del 2010.

La Corte ha concluso osservando che ciò non esclude che il revisore possa fornire il proprio apporto all’autore qualificato nella commissione del reato di falso in bilancio (ad esempio assicurando allo stesso una relazione positiva) e, conseguentemente, di quello di bancarotta societaria; tuttavia si tratta di concorso che passa attraverso le ordinarie forme di cui all’art. 110 c.p. e non attraverso una non consentita combinazione di altre norme incriminatrici, foriera di inammissibili scorciatoie probatorie. Da ultimo la Corte, richiamando una consolidata giurisprudenza di legittimità, ha osservato che in tema di bancarotta societaria (art. 223, comma 2, n. 1, l. fall.), rilevano ai fini della responsabilità penale anche le condotte successive alla irreversibilità del dissesto in quanto sia il richiamo alla rilevanza delle cause successive, espressamente dispiegate dall’art. 41 c.p. che disciplina il legame eziologico tra il comportamento illecito e l’evento, sia la circostanza per cui il fenomeno del dissesto non si esprime istantaneamente, ma con progressione e durata nel tempo (tanto da essere suscettibile di misurazione) assegnano influenza ad ogni condotta che incida, aggravandolo, sullo stato di dissesto già maturato. Il delitto di bancarotta societaria sussiste anche quando la condotta illecita abbia concorso a determinare solo un aggravamento dell’evento costituito dal dissesto già in atto della società. Conseguentemente la decisione della Corte d’Appello è stata ritenuta errata nella ricostruzione dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 223, comma 2, n. 1, l. fall., poiché appunta la propria attenzione solo sulla copertura soggettiva dell’evento del reato, così dimenticando che anche il reato presupposto di falso in bilancio deve essere integrato nelle sue componenti soggettive.  Oltre alla «volontà protesa al dissesto» deve sussistere, ha chiarito la Corte Suprema, anche l’atteggiamento psicologico richiesto dal reato societario, nella specie dall’art. 2621 c.c., che, nel testo vigente al momento del fatto, richiedeva: il dolo generico del falso, il dolo intenzionale dell’inganno rivolto a soci o al pubblico, il dolo specifico del fine di conseguire un ingiusto profitto. L’elemento soggettivo, è stato da ultimo ricordato, presenta una struttura complessa comprendendo, oltre alla consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico, il dolo generico (avente ad oggetto la rappresentazione del mendacio), il dolo specifico (profitto ingiusto) e il dolo intenzionale di inganno dei destinatari.


Visualizza documenti

IL REVISORE CONTABILE: FALSE COMUNICAZIONI SOCIALI E BANCAROTTA SOCIETARIA

Lascia un commento