A cura di Rossella Ceccarini
CONSIGLIO DI STATO, Sezione III, sentenza n. 1101 del 25.01.2024 pubblicata il 02.02.2024
La Terza Sezione del Consiglio di Stato con la sentenza n. 1101 del 25.01.2024 depositata il 02.02.2024, nel respingere l’appello, si è espressa in materia di interdittiva antimafia e ha applicato il principio secondo cui, proprio quando dietro la singola realtà d’impresa vi è un nucleo familiare particolarmente compatto e coeso, è statisticamente più facile che coloro i quali sono apparentemente al di fuori delle singole realtà aziendali possano curarne (o continuare a curarne) la gestione o, comunque, interferire in quest’ultima facendo leva sui più stretti congiunti.
Oggetto della controversia posta al vaglio del Consiglio di Stato è la sentenza emessa dal T.A.R. della Campania – sede di Napoli che ha respinto un ricorso proposto per l’annullamento del provvedimento interdittivo antimafia adottato nei confronti della società (…) dal Prefetto di Napoli per la vicinanza al clan camorristico (…). Con la sentenza n. 1101 il Consiglio di Stato ha affermato come sia noto che il nucleo familiare “allargato”, ma unito nel curare gli “affari” di famiglia, è uno degli strumenti di cui più frequentemente si serve la criminalità organizzata di stampo mafioso per la penetrazione legale nell’economia, tanto è vero che l’Adunanza Plenaria (sentenza 6 aprile 2018, n. 3), riprendendo la giurisprudenza della Terza Sezione del Consiglio di Stato, ha ribadito che – quanto ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose – l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del ‘più probabile che non’, che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto con il proprio congiunto. Nei contesti sociali in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una “influenza reciproca” di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza; una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della “famiglia”, sicché in una “famiglia” mafiosa anche il soggetto che non sia attinto da pregiudizio mafioso può subire, nolente, l’influenza del “capofamiglia” e dell’associazione. Hanno dunque rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e rilevano le peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza – su un’area più o meno estesa – del controllo di una “famiglia” e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti. Non rileva la mancanza di condanne a carico del soggetto perché gli elementi posti a base dell’informativa, proprio per la ratio ad essa sottesa, possono essere anche non penalmente rilevanti o non costituire oggetto di procedimenti o di processi penali o, addirittura e per converso, possono essere già stati oggetto del giudizio penale, con esito di proscioglimento o di assoluzione; non rileva, altresì, la risalenza nel tempo dei fatti addebitati e ciò in quanto l’interdittiva antimafia può essere legittimamente fondata anche su fatti che sono risalenti nel tempo, purché dall’analisi complessiva delle vicende esaminate emerga, comunque, un quadro indiziario che sia idoneo a giustificare il necessario giudizio di attualità e di concretezza del pericolo di infiltrazione mafiosa. La funzione di “frontiera avanzata” dell’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, infatti, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini. E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi (Cons. Stato, Sez. III, 28 giugno 2022, n. 5375; Cons. Stato, Sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758). Negare però in radice che il Prefetto possa valutare elementi “atipici”, dai quali trarre il pericolo di infiltrazione mafiosa, vuol dire annullare qualsivoglia efficacia alla legislazione antimafia e neutralizzare, in nome di un’astratta e aprioristica concezione di legalità formale, proprio la sua decisiva finalità preventiva di contrasto alla mafia (Cons. Stato, Sez. III, 18 settembre 2023, n. 8395). Il giudice amministrativo è chiamato a valutare l’ampiezza e la rilevanza del quadro indiziario posto a base della valutazione prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, nonché la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che l’autorità amministrativa trae da tale quadro indiziario, secondo un criterio che è probabilistico per la natura preventiva e non sanzionatoria della misura in esame; ma nell’esercizio di tale sindacato il giudice non può e non deve sostituirsi alla competente autorità di pubblica sicurezza nel giudizio discrezionale sulla sussistenza o meno dei presupposti per l’adozione dell’informativa sfavorevole.