a cura di Rossella Ceccarini
CONSIGLIO DI STATO, Sezione III, sentenza n. 4301 del 18.04.2024 depositata il 14.05.2024
La Terza Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza n. 4301 depositata il 14 maggio 2024, ha ribadito che l’informativa antimafia implica una valutazione discrezionale da parte dell’Autorità prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, capace di condizionare le scelte e gli indirizzi dell’impresa. Tale pericolo deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipico dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non” il pericolo di infiltrazione mafiosa.
La decisione prende origine da un ricorso in appello per la riforma di una sentenza del T.A.R. per la Campania – sede di Napoli che aveva respinto il ricorso avverso il provvedimento di diniego di iscrizione nelle White List provinciali e l’originaria revoca del rating di legalità, concludendo per la sussistenza di un grave quadro indiziario a carico di (…) perché ritenuto “permeabile all’influenza” del clan (…) e di esponenti di consorterie mafiose. Avverso la sentenza proponeva appello la società (…) adducendo l’erroneità delle motivazioni espresse dal Tribunale.
Secondo il Consiglio di Stato, lo stesso legislatore – all’art. 84, comma 3, d.lgs. n. 159/2011 – ha riconosciuto quale elemento fondante l’informazione antimafia la sussistenza di “eventuali tentativi” di infiltrazione mafiosa “tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate”. Eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e tendenza di questi ad influenzare la gestione dell’impresa sono nozioni che delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, finalizzato, appunto, a prevenire un evento che, per la stessa scelta del legislatore, non necessariamente è attuale, o inveratosi, ma anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori. D’altro canto, il legislatore, nell’ancorare l’emissione del provvedimento interdittivo antimafia all’esistenza di “tentativi” di infiltrazione mafiosa, ha fatto ricorso, come ha precisato ancora la giurisprudenza, ad una “clausola generale aperta”, che, tuttavia, non costituisce una “norma in bianco” né una delega all’arbitrio dell’autorità amministrativa imprevedibile per il cittadino, e insindacabile per il giudice, anche quando il Prefetto non fondi la propria valutazione su elementi “tipizzati” (quelli dell’art. 84, comma 4, lett. a, b, c ed f, d.lgs. n. 159/2011), ma riscontrati in concreto di volta in volta con gli accertamenti disposti, poiché il pericolo di infiltrazione mafiosa costituisce, sì, il fondamento, ma anche il limite del potere prefettizio e, quindi, demarca, per usare le parole della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, anche la portata della sua discrezionalità, da intendersi qui non nel senso, tradizionale e ampio, di ponderazione comparativa di un interesse pubblico primario rispetto ad altri interessi, ma in quello, più moderno e specifico, di equilibrato apprezzamento del rischio infiltrativo in chiave di prevenzione secondo corretti canoni di inferenza logica. La funzione di “frontiera avanzata” dell’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti e risultanze necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini. E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi (Cons. Stato, Sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758). D’altro canto, come è stato osservato anche dalla giurisprudenza penale, il sistema delle misure di prevenzione è stato ritenuto dalla stessa Corte Europea in generale compatibile con la normativa convenzionale poiché «il presupposto per l’applicazione di una misura di prevenzione è una “condizione” personale di pericolosità, la quale è desumibile da più fatti, anche non costituenti illecito, quali le frequentazioni, le abitudini di vita, i rapporti, mentre il presupposto tipico per l’applicazione di una sanzione penale è un fatto-reato accertato secondo le regole tipiche del processo penale» (Cass. pen., Sez. II, 9 luglio 2018, n. 30974). Il delicato bilanciamento raggiunto dall’interpretazione del Consiglio di Stato è stato confermato dalla Corte Costituzionale con le sentenze n. 24 del 27 febbraio 2019 e n. 195 del 24 luglio 2019. In tale direzione la verifica della legittimità della documentazione antimafia deve essere effettuata sulla base di una valutazione unitaria degli elementi e dei fatti che, visti nel loro complesso, possono costituire un’ipotesi ragionevole e probabile di permeabilità della singola impresa ad ingerenze della criminalità organizzata di stampo mafioso sulla base della regola causale del “più probabile che non”, integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali (qual è quello mafioso), e che risente della estraneità al sistema delle informazioni antimafia di qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta “al di là del ragionevole dubbio” (Cons. Stato, Sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343). Ai fini della sua adozione, da un lato, occorre non già provare l’intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale – sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri (Cons. Stato, Sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343). Ciò che connota la regola probatoria del “più probabile che non” non è un diverso procedimento logico, ma la (minore) forza dimostrativa dell’inferenza logica, sicché, in definitiva, l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, «ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale» (Cons. Stato, Sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483). Nella prospettiva della prevenzione anticipatoria della difesa della legalità si colloca, dunque, il provvedimento di informativa antimafia al quale, infatti, è riconosciuta dalla giurisprudenza natura “cautelare e preventiva” (Cons. Stato, Ad. Plen., 6 aprile 2018, n. 3), comportando un giudizio prognostico circa probabili sbocchi illegali dell’infiltrazione mafiosa. La Corte Costituzionale ha quindi fatto riferimento alle situazioni indiziarie, che sviluppano e completano le indicazioni legislative, costruendo un sistema di tassatività sostanziale.