a cura di Rossella Ceccarini

CONSIGLIO DI STATO, Sezione III, sentenza n. 4945 del 30.05.2024 depositata il 03.06.2024

La Terza Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 4945 depositata il 3 giugno 2024, ha ribadito quali sono i canoni ermeneutici entro cui si sviluppa correttamente l’esercizio del sindacato di legittimità nella materia disciplinata dal d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159.

La questione sottoposta al Consiglio di Stato riguarda un ricorso proposto da (…), in proprio e nella qualità di legale rappresentante pro tempore della società (…), per la riforma della sentenza emessa dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Basilicata – Sezione I, che aveva respinto un ricorso per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, dell’interdittiva antimafia della Prefettura di Matera. Secondo il Collegio, la ratio della normativa dettata dal d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, è proprio quella di evitare il “rischio” di contaminazione con la criminalità organizzata, che può verificarsi anche senza la necessaria ed immediata connivenza (contiguità soggiacente) dell’operatore economico oggetto di interesse da parte delle organizzazioni malavitose (in tema, la giurisprudenza ha più volte affermato che “la pluralità ed eterogeneità dei dati sintomatici di un pericolo di infiltrazione, anche solo in forma di contiguità c.d. soggiacente, è infatti tale, ad una valutazione congiunta degli stessi, da far ritenere non implausibile e non irragionevole la valutazione ritenuta dall’Amministrazione in relazione al complessivo quadro indiziario”; così, Cons. Stato, Sez. III, 29 dicembre 2022, n. 11600; cfr., altresì, Cons. Stato, Sez. III, 15 novembre 2022, n. 10033, e Cons. Stato, Sez. III, 3 novembre 2022, n. 9629).

Quanto alla durata dei rapporti tra appartenenti all’impresa (soci o dipendenti) ed ambienti della criminalità organizzata, il loro carattere occasionale da cui potrebbe dedursi l’illegittimità del provvedimento interdittivo può, al più, consentire alla società di essere ammessa al controllo giudiziario (Cass. pen., Sez. VI, 16 luglio 2021, n. 27704), il cui buon esito consente “all’impresa ad esso (volontariamente) sottoposta di continuare ad operare, nella prospettiva finale del superamento della situazione sulla cui base è stata emessa l’interdittiva” (Cons. Stato, Ad. Plen., 13 febbraio 2023, n. 7, che ha anche fissato i confini del rapporto tra provvedimento prefettizio e controllo giudiziario, stabilendo che questo “sopravviene ad una situazione di condizionamento mafioso in funzione del suo superamento ed al fine di evitare la definitiva espulsione dal mercato dell’impresa permeata dalle organizzazioni malavitose”, aggiungendo che “da un lato il rapporto di successione tra i due istituti si coglie con immediatezza laddove il condizionamento mafioso non possa ritenersi definitivamente accertato, pendente la contestazione mossa in sede giurisdizionale contro la ricostruzione dell’autorità prefettizia; dall’altro lato la medesima vicenda successoria di istituti non è comunque impedita quando il condizionamento possa invece ritenersi accertato con effetto di giudicato, con il rigetto dell’impugnazione contro l’interdittiva”.

Da un concorrente angolo prospettico, la giurisprudenza ha stabilito che gli elementi posti a base dell’informativa antimafia non devono essere letti ed interpretati in una visione atomistica e parcellizzata, ma nel loro insieme, così da avere un quadro complessivo, da cui si possano inferire dati di un possibile condizionamento della libera attività concorrenziale dell’impresa (a partire da Cons. Stato, Sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743, ex multis, Cons. Stato, Sez. III, 19 maggio 2022, n. 3973; Cons. Stato, Sez. III, 11 aprile 2022, n. 2712; Cons. Stato, Sez. III, 22 aprile 2022, n. 2985). Specularmente, è stata più volte ribadita l’autonomia tra la sfera dell’indagine penale e quella del procedimento amministrativo che conduca ad un provvedimento interdittivo, considerata la funzione di misura preventiva e non inquisitoria del secondo. La costante giurisprudenza amministrativa ha già chiarito che il pericolo di infiltrazione mafiosa deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza “oltre ogni ragionevole dubbio”, tipica dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su prove, ma che implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non”, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa (v., per tutte, Cons. Stato, Sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758; Cons. Stato, Sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743 e la giurisprudenza successiva della stessa sezione) . Lo stesso legislatore – all’art. 84, comma 3, d.lgs. n. 159/2011 – riconosce quale elemento fondante l’informazione antimafia la sussistenza di “eventuali tentativi” di infiltrazione mafiosa “tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate”. Eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e tendenza ad influenzare la gestione dell’impresa sono all’evidenza tutte nozioni che delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, finalizzata, appunto, a prevenire un evento che, per la stessa scelta del legislatore, non necessariamente è attuale, o inveratosi, ma anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori. Il pericolo – anche quello di infiltrazione mafiosa – è per definizione la probabilità di un evento e, cioè, l’elevata possibilità e non mera possibilità o semplice eventualità che esso si verifichi. Il diritto amministrativo della prevenzione antimafia in questa materia non sanziona perciò fatti penalmente rilevanti, né reprime condotte illecite, ma mira a scongiurare una minaccia per la sicurezza pubblica, l’infiltrazione mafiosa nell’attività imprenditoriale, e la probabilità che siffatto “evento” si realizzi (Cons. Stato, Sez. III, 31 marzo 2023, n. 3338). E ciò pur nella consapevolezza che “il pericolo dell’infiltrazione mafiosa, quale emerge dalla legislazione antimafia, non può tuttavia sostanziarsi in un sospetto della pubblica amministrazione o in una vaga intuizione del giudice, che consegnerebbero questo istituto, pietra angolare del sistema normativo antimafia, ad un diritto della paura, ma deve ancorarsi a condotte sintomatiche e fondarsi su una serie di elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore (art. 84, comma 4, del d.lgs. n. 159 del 2011: si pensi, per tutti, ai cc.dd. delitti spia), mentre altri, ‘a condotta libera’, sono lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa, che ‘può’ – si badi: può – desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell’art. 91, comma 6, D.L.vo n. 159 del 2011, da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali ‘unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata’” (cfr. Cons. Stato, Sez. III, n. 6105/2019).


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INTERDITTIVA ANTIMAFIA: RAPPORTO TRA LA SFERA DELL’INDAGINE PENALE E QUELLA DEL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO