a cura di Rossella Ceccarini
CONSIGLIO DI STATO, Sezione III, sentenza n. 5350 del 23.04.2024 depositata il 14.06.2024
La Terza Sezione in sede giurisdizionale del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 5350 depositata il 14 giugno 2024, nell’accogliere il ricorso e riformare una sentenza del T.A.R. per la Basilicata, ha confermato l’indirizzo interpretativo suggellato a più riprese dalla giurisprudenza nomofilattica dell’Adunanza Plenaria secondo cui la persona fisica priva della qualità di imprenditore o il semplice professionista non possono essere attinti da un’informativa antimafia.
Secondo il Consiglio di Stato, militano in favore dell’opzione esegetica che esclude l’interdicibilità della semplice persona fisica una pluralità di indici interpretativi che pare utile mettere a sistema nell’ottica della composizione del quadro ermeneutico. Innanzitutto, il tenore letterale del microsistema della disciplina antimafia individua come riferimento soggettivo costante degli effetti dei provvedimenti inibitori prefettizi l’impresa, sia in forma individuale, sia in forma societaria, al punto che, sin dalla disposizione di esordio, a livello definitorio, l’interdittiva viene definita come “attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’articolo 67, nonché, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 91, comma 6, (…) attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate” (art. 84 d.lgs. n. 159/2011). Tutte le disposizioni successive confermano che il fulcro del corpus della documentazione antimafia è l’impresa. In sintesi, il denominatore comune del corpus normativo antimafia è la sua focalizzazione verso gli operatori economici e i loro rapporti con la pubblica amministrazione in termini di affidabilità e serietà. All’argomento letterale si affianca, poi, quello logico-sistematico: la peculiare struttura logica del sillogismo inferenziale messo in campo dall’autorità prefettizia, delineato dagli artt. 84, comma 4, e 91, comma 6, d.lgs. n. 159/2011, prende l’abbrivio dall’apprezzamento di situazioni sintomatiche (provvedimenti cautelari o di condanna per c.d. “reati spia”, provvedimenti di prevenzione, etc.) e, più in generale, dai “concreti elementi da cui risulti che l’attività d’impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata”: il Prefetto inferisce dalla sussistenza di tale coacervo di elementi un giudizio a base probabilistica di permeabilità mafiosa che si estrinseca nel rischio che la criminalità organizzata tenti di “condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese”. Le situazioni sintomatiche e i reati spia si riferiscono giocoforza alle persone fisiche (come comprovato dal disposto dell’art. 85 che enuclea i soggetti apicali da sottoporre a verifica), mentre il giudizio infiltrativo è centrato sull’impresa, che sia a base individuale o societaria. Ne consegue che ribaltare tale costrutto argomentativo incentrando il giudizio prognostico sulla persona fisica tout court non solo contrasta con il dettato normativo, ma collide con l’impianto logico-inferenziale che sottende – o dovrebbe sottendere – l’iter motivazionale del provvedimento prefettizio: in tal modo, infatti, si desumono elementi concreti di contiguità o permeabilità mafiosa da cui non si evince alcunché a carico dell’impresa o dei soggetti societari di cui la persona fisica sia socio o amministratore, bensì si circoscrive il giudizio di permeabilità alla stessa persona fisica, in una vera e propria petitio principi che va messa a nudo nella sua intrinseca tautologia (parafrasabile, a mo’ di esempio, in asserti lapalissiani del tipo: se il soggetto ha commesso reati spia sintomatici di mafiosità, è da ritenersi contiguo o permeabile alla criminalità organizzata). Le predette osservazioni conducono la disamina all’ultimo argomento, di indole teleologica, che non può non imporsi nella sua evidenza: la ratio legis delle misure interdittive è di indole autenticamente preventivo-cautelare mirando a prevenire tentativi di infiltrazione mafiosa nelle imprese, suscettibili di condizionare anche le scelte e gli indirizzi della pubblica amministrazione. L’ordinamento vuole in definitiva scongiurare che la pubblica amministrazione si trovi a contrattare, rilasciare titoli abilitativi o erogare provvidenze, comunque denominate, a favore di soggetti immeritevoli di fiducia per via di situazioni opache di contiguità con la criminalità organizzata. Posta in questi termini la ratio legis della documentazione antimafia, ne discende che l’allargamento della platea soggettiva dei soggetti suscettibili di essere attinti da interdittiva sino a ricomprendervi le persone fisiche slegate dal contesto imprenditoriale distorce gli obiettivi perseguiti dal legislatore e si tramuta surrettiziamente in uno strumento di capitis deminutio del privato che si cumula impropriamente con le pene accessorie, le misure di prevenzione e altre misure a carattere afflittivo-sanzionatorio previste dall’ordinamento. Soccorre a sostegno di questa esegesi l’inquadramento della figura offerto dalla giurisprudenza nomofilattica dell’Adunanza Plenaria che ha ricostruito il peculiare cono di effetti inibitori sortito dall’interdittiva prefettizia come “una particolare forma di incapacità ex lege, parziale (in quanto limitata a specifici rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione) e tendenzialmente temporanea” tale da escludere che un imprenditore, persona fisica o giuridica, pur dotato di adeguati mezzi economici e di una altrettanto adeguata organizzazione, meriti la fiducia delle istituzioni (sia cioè da queste da considerarsi come “affidabile”) e possa essere, di conseguenza, titolare di rapporti contrattuali con le predette amministrazioni, ovvero destinatario di titoli abilitativi da queste rilasciati, come individuati dalla legge, ovvero ancora essere destinatario di “contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate” (Cons. Stato, Ad. Plen., 6 aprile 2018, n. 3). Al riguardo, secondo il Consiglio di Stato, non coglie nel segno l’asserto difensivo dell’Amministrazione che vorrebbe appuntarsi sul richiamo sparso alla “persona fisica” nel corpo della motivazione della pronuncia. L’evoluzione del diritto vivente si è progressivamente assestata sulla traiettoria ermeneutica sin qui delineata registrando un ulteriore pronunciamento dell’organo nomofilattico: con la sentenza n. 3 del 2022 l’Adunanza Plenaria, dopo un’accurata disamina dello statuto del potere prefettizio di interdittiva, ha escluso la legittimazione attiva di soci e amministratori all’impugnativa del provvedimento prefettizio potendo lo stesso essere impugnato solo dal soggetto che ne patisce gli effetti diretti – la società – in virtù della propria posizione giuridica soggettiva di interesse legittimo; ogni altro tipo di rapporto, estraneo alla relazione intersoggettiva tra il destinatario dell’atto e la pubblica amministrazione, è inidoneo a far sorgere situazioni di interesse legittimo e impedisce, quindi, di configurare sul piano processuale la legittimazione ad agire nei confronti del provvedimento di interdittiva antimafia.