A cura della Redazione
Corte di Cassazione, Sezione IV, sentenza n. 34600 del 20.09.2022
Con la sentenza n. 34600 del 20.09.2022, la Suprema Corte ha affermato che è legittimo il sequestro diretto (oltreché per equivalente) delle somme costituenti profitto del reato di caporalato di cui all’art. 603-bis c.p.
Il caso sottoposto al vaglio degli Ermellini trae origine da un ricorso avverso il rigetto da parte del Tribunale di Pavia, in funzione di Tribunale del riesame per le misure cautelari reali, di una istanza di riesame presentata nell’interesse dell’indagato in relazione al sequestro del compendio aziendale e delle quote sociali, nonché al sequestro preventivo nei confronti del medesimo (oltreché dei coindagati), nella sua qualità di amministratore di fatto della [omissis Cooperativa sociale] o, in caso di incapienza, a carico della citata società, finalizzato alla confisca diretta o, in subordine, per equivalente ex art. 603-bis c.p., fino alla concorrenza della somma di € 167.155,82 quale profitto del reato
La Suprema Corte, investita della decisione, ha accolto le conclusioni dei giudici di merito ritenendo legittimo il sequestro operato, quale sequestro diretto delle somme costituenti profitto del reato, atteso che l’illecito di cui all’art. 603-bis c.p. era contestato in proprio al ricorrente, la cui qualità di amministratore di fatto della società doveva ritenersi ampiamente provata.
Per gli Ermellini il reato di caporalato può emergere da una serie di elementi, quali l’imposizione di un orario di lavoro più lungo del normale, la corresponsione di un salario inferiore a quello indicato dal CCNL, il riconoscimento di poche giornate libere e l’assenza di retribuzione per lavoro straordinario. Inoltre, lo stato di bisogno va inteso come una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, tale da limitare la volontà della vittima e da indurla ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose.
Pertanto, una volta provata la sussistenza dei già menzionati requisiti appare configurabile il c.d. fumus commissi delicti, necessario per legittimare l’irrogazione di misure cautelari, quali il sequestro dei proventi del suddetto reato.
Di seguito si riportano i passaggi tratti dalla sentenza che indicano il ragionamento che ha portato la Suprema Corte a ritenere sussistente il delitto di caporalato e quindi legittima l’adozione della misura cautelare a carattere patrimoniale:
“È infondato anche il secondo motivo di ricorso. Nell’ampio percorso argomentativo sviluppato sul punto dall’ordinanza impugnata, emerge una serie di elementi dichiarativi da parte di numerosi lavoratori dipendenti dalla società ricorrente, che depongono sia per una condizione di oggettivo sfruttamento – soprattutto sul piano dell’orario lavorativo specie a fronte del salario corrisposto e a quello previsto dal CCNL, delle poche giornate libere e dell’assenza di retribuzione per lavoro straordinario – e di ricorrente, marcato scostamento rispetto alle condizioni pattuite; sia per la sussistenza di condizioni di oggettivo bisogno dei lavoratori.
Orbene, soprattutto considerando che nella specie la valutazione degli elementi costitutivi del reato rileva a fini cautelari (ossia per la configurabilità del fumus commissi delicti), deve tenersi presente che, ai fini dell’integrazione del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, lo stato di bisogno non va inteso come uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, bensì come una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, tale da limitare la volontà della vittima e da indurla ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose (Sez. 4, Sentenza n. 24441 del 16/03/2021, Sanitrasport Soc. Coop. Sociale, Rv. 281405, richiamata anche nell’ordinanza impugnata; più di recente si vedano Sez. 4, n. 45615 dell’11/11/2021, Mazzotta, e n. 7861 dell’11/11/2021, deo. 2022, Cirigliano, entrambe non massimate)”.