A cura di Rossella Ceccarini
CONSIGLIO DI STATO, Sezione III, sentenza n. 3338 del 31 marzo 2023
La terza Sezione del Consiglio di Stato con sentenza n. 3338 del 31 marzo 2023 si è espressa sugli elementi sintomatici dell’infiltrazione mafiosa. La questione trae origine dall’adozione da parte della Prefettura di una informazione interdittiva adottata nei confronti dell’impresa (…) e del successivo provvedimento di divieto della prosecuzione dell’attività emesso dal dirigente del Comune di (…) – Settore sviluppo economico. Avverso tali provvedimenti la ditta (…) promuoveva ricorso avanti al T.A.R. che accoglieva le doglianze ritenendo configurato “un quadro indiziario troppo debole per fondare la prognosi di permeabilità mafiosa, essendo fondato su indizi privi degli indispensabili requisiti di individualità, concretezza ed attualità e che i dati investigativi raccolti sono troppo generici ed indeterminati per suffragare, secondo il parametro della probabilità cruciale, il temuto pericolo di infiltrazione criminosa ai danni della società ricorrente”. Avverso tale sentenza insorgeva la Prefettura proponendo ricorso al Consiglio di Stato deducendo l’erronea valutazione dei presupposti dell’informativa prefettizia.
Il Consiglio di Stato ha ribadito che la costante giurisprudenza amministrativa ha già chiarito che il pericolo di infiltrazione mafiosa deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipico dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su prove, ma che implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non”, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa (v., per tutte, Cons. Stato, sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758; Cons. Stato, sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743). Lo stesso legislatore – art. 84, comma 3, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 – riconosce quale elemento fondante l’informazione antimafia la sussistenza di «eventuali tentativi» di infiltrazione mafiosa «tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate». Eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e tendenza ad influenzare la gestione dell’impresa sono all’evidenza tutte nozioni che delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, finalizzate, appunto, a prevenire un evento che, per la stessa scelta del legislatore, non necessariamente è attuale, o inveratosi, ma anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori. Il pericolo – anche quello di infiltrazione mafiosa – è per definizione la probabilità di un evento e, cioè, l’elevata possibilità e non la mera possibilità o semplice eventualità che esso si verifichi. Il diritto amministrativo della prevenzione antimafia in questa materia non sanziona perciò fatti, penalmente rilevanti, né reprime condotte illecite, ma mira a scongiurare una minaccia per la sicurezza pubblica, l’infiltrazione mafiosa nell’attività imprenditoriale, e la probabilità che siffatto “evento” si realizzi. Il pericolo dell’infiltrazione mafiosa, quale emerge dalla legislazione antimafia, “non può tuttavia sostanziarsi in un sospetto della pubblica amministrazione o in una vaga intuizione del giudice, che consegnerebbero questo istituto, pietra angolare del sistema normativo antimafia, ad un diritto della paura, ma deve ancorarsi a condotte sintomatiche e fondarsi su una serie di elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore (art. 84, comma 4, D.L.vo n. 159 del 2011: si pensi, per tutti, ai cc.dd. delitti spia), mentre altri, ‘a condotta libera’, sono lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa, che ‘può’ – si badi: può – desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell’art. 91, comma 6, D.L.vo n. 159 del 2011, da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali «unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata»” (cfr. Cons. Stato, sez. III, n. 6105/2019). Come noto, il d.lgs. n. 159/2011 prevede, all’art. 84, comma 4, lett. d), che gli elementi sintomatici dell’infiltrazione mafiosa, al di là di quelli previsti dall’art. 91, comma 6, siano anche quelli desunti «dagli accertamenti disposti dal prefetto».
La giurisprudenza dello stesso Consiglio di Stato, elaborata a commento delle richiamate disposizioni, ha così enucleato – in modo sistematico a partire dalla sentenza n. 1743 del 3 maggio 2016 – le situazioni indiziarie, tratte dalle indicazioni legislative o dalla casistica giurisprudenziale, che possono costituire altrettanti “indici” o “spie” dell’infiltrazione mafiosa, non senza precisare che esse, per la loro stessa necessaria formulazione aperta, costituiscono un catalogo aperto e non già un numerus clausus, in modo da poter consentire all’ordinamento di poter contrastare efficacemente l’infiltrazione mafiosa all’interno dell’impresa via via che essa assume forme sempre nuove e sempre mutevoli. Basti qui ricordare, nell’ambito di questa ormai consolidata tipizzazione giurisprudenziale, le seguenti ipotesi, molte delle quali tipizzate, peraltro, in forma precisa e vincolata dal legislatore stesso: a) i provvedimenti “sfavorevoli” del giudice penale; b) le sentenze di proscioglimento o di assoluzione, da cui pure emergano valutazioni del giudice competente su fatti che, pur non superando la soglia della punibilità penale, sono però sintomatici della contaminazione mafiosa, nelle multiformi espressioni con le quali la continua evoluzione dei metodi mafiosi si manifesta; c) la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d.lgs. n. 159/2011; d) i rapporti di parentela, laddove assumano un’intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”, in cui il ricambio generazionale mai sfugge al “controllo immanente” della figura del patriarca, capofamiglia, ecc., a seconda dei casi; e) i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia; f) le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa; g) le vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa, incluse le situazioni, recentemente evidenziate in pronunzie del Consiglio di Stato, in cui la società compie attività di strumentale pubblico sostegno a iniziative, campagne, o simili, antimafia, antiusura, antiriciclaggio, allo scopo di mostrare un “volto di legalità” idoneo a stornare sospetti o elementi sostanziosi sintomatici della contaminazione mafiosa; h) la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi “benefici”; i) l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità.