a cura di Rossella Ceccarini
CASSAZIONE PENALE, Sezioni Unite, sentenza n. 19357 del 29.02.2024 depositata il 15.05.2024
Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19357 depositata il 15 maggio 2024, hanno affermato il seguente principio di diritto: “non sussiste continuità normativa tra il reato di millantato credito di cui all’art. 346, comma secondo, cod. pen. – abrogato dall’art. 1, comma 1, lett. s), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 – e il reato di traffico di influenze illecite di cui all’art. 346-bis cod. pen., come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. t), della citata legge; le condotte, già integranti gli estremi dell’abolito reato di cui all’art. 346, comma secondo, cod. pen., potevano, e tuttora possono, configurare gli estremi del reato di truffa (in passato astrattamente concorrente con quello di millantato credito corruttivo), purché siano formalmente contestati e accertati in fatto tutti gli elementi costitutivi della relativa diversa fattispecie incriminatrice”.
Per le Sezioni Unite, al fine di risolvere il quesito riguardante una peculiare ipotesi di successione di leggi penali caratterizzata dall’abrogazione di una disposizione e dalla contestuale modifica del contenuto di altra già esistente, lungi dal poter fare affidamento sulla sola verifica del bene giuridico tutelato o delle modalità dell’offesa qualificanti ciascuna delle norme poste a raffronto, ovvero sulla regola della c.d. doppia punibilità in concreto (in quanto canoni caratterizzati da troppo ampi margini di incertezza), l’unico attendibile criterio utilizzabile è quello fondato sul formale confronto strutturale tra le considerate fattispecie incriminatrici, da compiere con un’esegesi letterale e logico-sistematica dei modelli astratti di reato in avvicendamento cronologico. Costituisce espressione di un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale, in tema di successione di leggi penali, perché sia applicabile la regola del quarto comma dell’art. 2 c.p., occorre che il fatto costituente reato secondo la legge precedente sia tuttora punibile secondo la nuova legge, laddove vanno invece considerati non più punibili, a mente del secondo comma dello stesso art. 2 c.p., i fatti commessi in precedenza, ma rimasti fuori del perimetro della nuova fattispecie. Tali situazione vanno verificate in base ad un confronto tra le fattispecie legali astratte che si succedono nel tempo, cioè prescindendo dalle peculiarità del fatto concreto, allo scopo di accertare in maniera autonoma, senza l’impiego di criteri assiologici, se l’intervento legislativo posteriore assuma carattere demolitorio di un elemento costitutivo del fatto tipico, alterando radicalmente una precedente figura di reato, ovvero, non incidendo sulla struttura della stessa, consenta la sopravvivenza di un eventuale spazio comune alle suddette fattispecie (in questo senso, tra le altre, Cass. pen., Sez. Un., 26 febbraio 2009, n. 24468).
Alla stregua di tali principi, è possibile fondatamente sostenere che la scelta del legislatore del 2019 di abrogare l’art. 346 c.p. e, contestualmente, di modificare il contenuto dell’art. 346-bis c.p. ha comportato un fenomeno di abolitio criminis con riferimento ai fatti di millantato credito c.d. “corruttivo”, già previsti dall’art. 346, comma 2, c.p. Conclusione alla quale si perviene sulla base di un duplice ordine di ragioni. Nella figura prevista dall’abrogato art. 346, comma 2, c.p., il reato era monosoggettivo, in quanto la disposizione era tutta “concentrata” sulla condotta dell’unico soggetto di cui era prevista la punizione («millantando credito […] riceve, si fa dare o promettere […] con il pretesto […]»), a differenza della “vittima” del millantato credito, raffigurata come soggetto danneggiato perché tratto in inganno dalla vanteria di un’inesistente relazione con il pubblico agente, i cui favori il millantatore si proponeva di “comprare”. Né il risultato dell’analisi muterebbe laddove si volesse accedere alla (solo formalmente) diversa ricostruzione offerta da una parte della dottrina, la quale, a proposito di tale illecito, preferisce parlare di reato plurisoggettivo improprio ovvero di reato naturalisticamente plurisoggettivo, ma comunque a punibilità monosoggettiva (al pari di quanto accade per la truffa o per la concussione). Nella figura prevista dal “nuovo” art. 346-bis c.p. il reato è, al contrario, normativamente plurisoggettivo, perché si sanzionano – con la stessa pena – entrambe le parti di un’intesa, sia il trafficante di influenze che “vanta una relazione asserita”, sia il committente che dà o promette denaro o altra utilità. L’illecito si atteggia come reato-contratto e il medesimo trattamento sanzionatorio riservato ad entrambi i coautori, compreso il privato che paga o che promette di pagare, è ragionevolmente compatibile con i principi costituzionali di materialità e di offensività solamente ritenendo che il committente, lungi dall’essere un soggetto ingannato, è consapevole che il trafficante non ha (ancora) una relazione effettiva con il pubblico agente («vantando […] relazioni asserite», si legge nella disposizione). Il confronto tra le linee strutturali generali delle due fattispecie di reato poste a raffronto risulta, perciò, più coerente con l’idea di una “discontinuità normativa” tra le considerate disposizioni incriminatrici. La considerata difformità lessicale tra le due fattispecie si connette, dunque, alle rispettive rationes giustificatrici dell’intervento punitivo. Come si è già anticipato, se la formula «vantando una relazione […] asserita», contenuta nel testo vigente dell’art. 346-bis c.p., fosse interpretata come comprensiva del caso del privato che dà o promette perché tratto in inganno dal mediatore circa la possibilità che questi possa corrompere il pubblico agente, diventerebbe logicamente non accettabile la punizione del privato committente. A differenza di quanto previsto nell’abrogata disposizione dell’art. 346, comma 2, c.p., nella quale era comprensibilmente punito il solo mediatore perché lo stesso non aveva avuto alcuna intenzione di instaurare un “contatto” o una relazione con il pubblico agente, avendo anzi programmato di appropriarsi del corrispettivo ricevuto o promesso, riconoscendo una continuità normativa con il “nuovo” art. 346-bis c.p. si finirebbe per sanzionare anche il committente solo per il disvalore delle sue intenzioni e non per una condotta, del tutto inidonea a creare un vulnus dell’interesse al retto e imparziale operato della pubblica amministrazione. È ragionevole, pertanto, ribadire che il legislatore del 2019, inserendo nell’art. 346-bis c.p. la formula «vantando relazioni […] asserite», senza riproporre il sintagma «col pretesto» presente nella figura del millantato credito c.d. “corruttivo”, abbia voluto far riferimento non all’ipotesi del soggetto tratto in inganno dal mediatore (che resta, in tal modo, espunta dall’ambito del penalmente rilevante, a norma dell’art. 2, comma 2, c.p.), ma a quella di colui che partecipa a pieno titolo ad un’intesa criminosa. Soggetto punibile, al pari del “trafficante”, perché, pur consapevole che la relazione con il pubblico funzionario è ancora inesistente e solo “vantata”, decide di fare affidamento sulla potenziale capacità del mediatore di instaurare quel “rapporto affaristico”, in tal modo concorrendo a determinare quella effettiva messa in pericolo del bene giuridico protetto, che, in una lettura costituzionalmente orientata, è l’unica condizione che può legittimare l’omogeneo trattamento sanzionatorio per entrambi i correi.