a cura di Rossella Ceccarini
CORTE DI CASSAZIONE, Sezione I Civile, ordinanza n. 18116 del 07.05.2024 depositata il 02.07.2024
La Prima Sezione della Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 18116 depositata il 2 luglio 2024 ha ribadito il principio secondo il quale l’opera prestata dal professionista su incarico del curatore fallimentare, nella qualità di consulente tecnico di parte in un procedimento civile, esula da quella pertinente alla figura del coadiutore di cui all’art. 32, comma 2, l.fall. e s’inquadra, piuttosto, in quella relativa alla vera e propria prestazione d’opera professionale, atteso che la curatela fallimentare si avvale del professionista non già per riceverne un contributo tecnico al perseguimento di finalità istituzionali della procedura bensì, non diversamente dall’avvocato cui sia affidata la rappresentanza e difesa giudiziale, per la difesa della massa in un procedimento extrafallimentare che vede la curatela costituita quale parte in causa (Cass. n. 2572/1996).
Il caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte riguarda il rigetto di un reclamo avverso un decreto emesso dal Tribunale di Bari con il quale il giudice delegato al fallimento della (…) s.p.a. aveva liquidato il compenso maturato dal consulente tecnico del curatore nel giudizio promosso da quest’ultimo a norma dell’art. 67 l.fall. nei confronti di una banca determinandolo in forza di valori medi della tariffa prevista dall’art. 2 d.m. 30 maggio 2002. La ricorrente (…) impugnava il rigetto lamentando: 1) violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, n. 4, c.p.c., e vizio di motivazione, in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c.; 2) violazione dell’art. 132, n. 4, c.p.c., in relazione all’art. 360, n. 4, c.p.c.; 3) violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c.
Secondo la Suprema Corte il consulente di parte, in effetti, svolge, nell’ambito del processo, attività di natura squisitamente difensiva, ancorché di carattere tecnico, mirando a sottoporre al giudicante rilievi a sostegno della tesi difensiva della parte assistita con la conseguenza che, da un lato, il suo espletamento è riconducibile al contratto d’opera professionale e, dall’altro, il relativo compenso dev’essere determinato sulla base delle relative tariffe professionali, mentre non è possibile ricorrere ai criteri seguiti per la determinazione delle spettanze del consulente tecnico d’ufficio, la cui attività non si ricollega ad un rapporto contrattuale (Cass. n. 19399/2011, la quale, applicando detto principio, ha cassato il decreto del tribunale, che aveva confermato quello del giudice delegato al fallimento, con il quale, al consulente di parte nominato dalla procedura nell’ambito del giudizio di revocatoria dallo stesso promosso, era stato liquidato il compenso in base alla tariffa di cui al d.m. 30 maggio 2002, applicabile agli ausiliari del curatore; conf. Cass. n. 17708/2014). Gli Ermellini hanno ribadito che la posizione del consulente del fallimento non è in alcun modo assimilabile a quella degli ausiliari del giudice, inquadrandosi l’attività da lui svolta in un vero e proprio rapporto di prestazione d’opera professionale, le cui caratteristiche non subiscono alcuna modificazione per effetto della circostanza che la parte committente sia rappresentata dalla curatela fallimentare, in quanto quest’ultima non si avvale del professionista per riceverne un contributo tecnico al perseguimento delle finalità istituzionali della procedura, bensì, analogamente a quanto accade per l’avvocato al quale siano affidate la rappresentanza e la difesa in giudizio del fallimento, per l’assistenza di quest’ultimo nell’ambito di uno specifico procedimento giurisdizionale, in cui il curatore è costituito come parte in causa. Il consulente di parte svolge infatti, nell’ambito del processo, un’attività di natura squisitamente difensiva, ancorché di carattere tecnico, collaborando con l’avvocato al fine di sottoporre al giudicante rilievi a sostegno della tesi difensiva della parte assistita: la prestazione da lui resa non è pertanto equiparabile in alcun modo a quella del consulente tecnico d’ufficio, il quale opera in posizione d’imparzialità, fornendo al giudicante elementi di valutazione per la risoluzione di questioni il cui esame presupponga il possesso di specifiche cognizioni tecniche (c.d. consulenza deducente), nonché, in casi particolari, procedendo egli stesso alla rilevazione di fatti il cui accertamento richieda l’utilizzazione delle predette competenze (c.d. consulenza percipiente). Nessun rilievo può assumere, in contrario, l’attribuzione al giudice delegato del potere di liquidare il compenso dovuto al consulente di parte, nonché la previsione della reclamabilità del relativo provvedimento dinanzi al tribunale fallimentare, né è esatta l’affermazione secondo cui la designazione del consulente di parte è effettuata dal giudice delegato, al pari di quella del C.T.U. nominato nel giudizio di opposizione, trattandosi di una competenza spettante al difensore del fallimento nell’esercizio dei poteri di conduzione della lite conferitigli con il mandato, i quali non differiscono da quelli previsti in linea generale dall’art. 84 c.p.c. Il contenuto tecnico della prestazione resa dal consulente di parte e lo svolgimento della stessa in favore della procedura non risultano pertanto sufficienti a giustificarne l’assimilazione all’attività del C.T.U., la quale non è ricollegabile ad un rapporto contrattuale, ma costituisce oggetto di un munus publicum, adempiuto in posizione d’imparzialità e nell’interesse dell’amministrazione della giustizia, laddove quella del consulente di parte si configura come un incarico professionale conferito esclusivamente a vantaggio della massa dei creditori. Nella liquidazione del relativo compenso, non possono dunque trovare applicazione i criteri previsti per la determinazione delle spettanze degli ausiliari del giudice, dovendosi invece fare riferimento alle tariffe vigenti per la categoria professionale di appartenenza, non diversamente da quanto accade per il difensore del fallimento. I differenti risultati cui conduce l’applicazione di ciascuno degli indicati criteri di liquidazione non consentono poi di ritenere configurabile un’ingiustificata disparità di trattamento tra l’attività del consulente di parte e quella del C.T.U., tale da legittimare la disapplicazione dell’atto normativo secondario di approvazione della tariffa professionale (nella specie, il d.p.r. n. 645/1994, con cui è stato approvato il regolamento recante la disciplina degli onorari, delle indennità e dei criteri per il rimborso delle spese per le prestazioni professionali dei dottori commercialisti), trattandosi di situazioni non suscettibili di comparazione, avuto riguardo alla diversa posizione dei due professionisti ed alla differente natura dei rapporti posti a fondamento delle rispettive prestazioni (Cass. n. 17708/2014). Il compenso spettante al consulente tecnico del curatore dev’essere, quindi, liquidato avendo riguardo, in ragione della qualità dell’opera prestata, alle relative tariffe professionali e, nei limiti dell’importo domandato, al “valore della pratica” ivi previsto e non alla somma ricevuta dalla parte in sede di transazione.