a cura di Silvia Podestà
Il DL 18/2020 c.d decreto “Cura Italia”, all’art. 46 ha previsto la sospensione dei termini di impugnazione dei licenziamenti. “A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto l’avvio delle procedure di cui agli artt. 4,5 e 24, della legge 3 luglio 1991, n. 223 è precluso per sessanta giorni e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020. Sino alla scadenza di suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604.”
L’estensione non opera, per ovvi motivi, per i licenziamenti per giustificato motivo soggettivo, per i quali non è prevista alcun termine di sospensione.
Importanti interventi vengono introdotti in materia di estensione dell’integrazione salariale, sulle prestazioni di sostegno al reddito, in materia di riduzione dell’orario di lavoro e proroga dei termini di presentazione della Naspi. L’estensione degli ammortizzatori sociali con le previste misure eccezionali va estesa, di ragione, anche ai dipendenti delle aziende colpite da sequestro penale ovvero sequestro preventivo.
Già il decreto legislativo n. 72 del 18 maggio 2018 recante : “Tutela del lavoro nell’ambito delle imprese sequestrate e confiscate”, ha introdotto il trattamento di sostegno al reddito pari al trattamento straordinario di integrazione salariale a favore dei lavoratori sospesi o impiegati a orario ridotto dipendenti delle aziende sequestrate o confiscate, sottoposte ad amministrazione giudiziaria e per le quali è stato approvato il programma di prosecuzione o ripresa dell’attività di cui all’art. 41 D.lgs.159/2011 e fino alla loro assegnazione o destinazione, quando non possono ricorrere alle misure previste dal D.lgs.148/2015 a causa del superamento dei limiti soggettivi o oggettivi stabiliti dalla relativa disciplina o per difetto di condizioni di applicabilità della stessa.
L’Inps chiarisce nella circolare 2679 del 12.7.2019 che ai sensi del comma 5 art. 1, il trattamento non può essere richiesto da una serie di soggetti che la norma elenca:
- Lavoratori indagati, imputati o condannati per il reato di associazione mafiosa, per i reati aggravati di cui all’art. 416 bis primo comma e reati connessi
- Il proposto, il coniuge o parte dell’unione civile, gli affini, i parenti, i conviventi ecc.
- I lavoratori che abbiano attivamente partecipato alla gestione dell’azienda prima del sequestro e fino all’esecuzione.
Ebbene, la genericità del punto c) impone delle riflessioni.
L’amministratore giudiziario deve stilare delle liste dei lavoratori che potranno beneficiare della provvidenza e di quelli che non potranno beneficiarne. Ma se i limiti delle prime due categorie di lavoratori sono più o meno chiari, non lo è affatto la terza. Quali sono i criteri che identificano un lavoratore che abbia partecipato alla gestione aziendale? Quale l’eventuale sede di accertamento in caso di contestazione? Quali i reali poteri dell’operatore ?
La prima problematica è rappresentata dall’individuazione dell’elemento distintivo tra i lavoratori che abbiano partecipato alla gestione dell’azienda e quelli che non vi abbiano partecipato. Quale l’elemento di discriminazione? La buona fede e l’inconsapevole affidamento dettato dall’art. 52 del codice antimafia che disciplina la tutela dei terzi? e quale l’organo che accerta la corretta valutazione dell’amministratore giudiziario? il giudice delegato o l’organo prefettizio in sede di “tavoli permanenti” ex art. 41 ter ?
Ed ancora, quale la linea sottile tra i lavoratori che hanno partecipato alla gestione della azienda e coloro che hanno cogestito? Il personale colpito sembrerebbe quello dirigenziale ma il legislatore antimafia omettendo precise indicazioni al riguardo, lascia l’interprete nel dubbio se escludere anche i cosiddetti pseudo dirigenti ovvero i dirigenti convenzionali, impiegati con funzioni direttive con poteri di iniziativa fortemente ridotti ma comunque soggetti che hanno attivamente partecipato alla gestione dell’azienda. In mancanza di indicazioni è lecito porsi il dubbio se anche su costoro, per quanto inconsapevoli terzi in buona fede, debba cadere la scure.
Dalla mappatura informatica dei beni sequestrati, realizzata attraverso un’analisi di confronto dei dati del sistema informativo del Ministero della Giustizia con il database dell’A.N.B.S.C., che conta le aziende sequestrate confiscate in via definitiva nell’ambito delle sole misure di prevenzione e quindi senza considerare i procedimenti penali, si stima che al 31 dicembre 2015, il numero delle aziende sequestrate e confiscate risultava pari a 23.049 unità di cui 795 attive, con un numero di dipendenti stimato intorno alle 8.349 unità.
Ben si comprende quindi che una delle prime attività dell’amministratore giudiziario sia quella di valutare la sostenibilità dell’organigramma aziendale con l’esigenza imprenditoriale di conservare la produttività del bene e ove possibile incrementarne la produttività in ossequio dell’art. 35 comma 5 D.lgs.159/2011. I lavoratori che non entrano nel meccanismo criminale, sono a tutti gli effetti soggetti terzi in buona fede che sventuratamente vengono coinvolti nelle sorti dell’impresa. La posizione di terzi, viene definitivamente chiarita dalla Corte Costituzionale che nella pronuncia n. 94/2015 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 198 art. 1 della legge 24/12/2012 n. 228 nella parte in cui non includeva tra i creditori che sono soddisfatti parzialmente anche i titolari di crediti derivanti da rapporto di lavoro subordinato, limitandone, però l’inserimento ai soli lavoratori dipendenti.
L’amministratore giudiziario, chiamato ad agire in un’ottica di conservazione del patrimonio, si trova a dover bilanciare la coesistenza di due interessi ugualmente tutelati dalla Costituzione, da un lato il libero esercizio dell’attività imprenditoriale e dall’altro il mantenimento dei livelli occupazionali, quindi la tutela dei prestatori di lavoro.
Una volta scelta la politica gestionale da adottare e autorizzata dal Tribunale la prosecuzione dell’attività aziendale, si pongono le problematiche sulla scelta da adottare sul mantenimento delle posizioni lavorative ovvero sulla risoluzione dei rapporti di lavoro in essere.
Il licenziamento è sicuramente un atto di straordinaria amministrazione ovvero uno di quegli atti di natura eccezionale che richiedono per la sua comminatoria l’autorizzazione preventiva del Giudice della procedura.
Il legislatore antimafia omette, però, di prevedere un elenco degli atti di ordinaria e di straordinaria amministrazione e la mancata espressa previsione comporta che l’amministratore giudiziario debba rifarsi alle norme e ai principi di diritto civile, per quanto compatibili, ma con non poche incertezze. Invero l’atto di straordinaria amministrazione è per sua natura “reclamabile”, eppure il provvedimento di licenziamento non è reclamabile, pur essendo atto di straordinaria amministrazione, bensì “impugnabile” innanzi al Giudice del Lavoro. In pratica la valutazione della legittimità nel merito viene sottratta alla competenza del Giudice delegato e affidata alla competenza per materia del Giudice del lavoro ex art. 413 c.p.c. La ratio della delega è evidentemente nel fatto che il reclamo è circoscritto a quegli atti relativi alla gestione dei beni in sequestro, atti che la parte reclamante ritiene compiuti in violazione delle direttive impartite dal Giudice delegato, mentre la regolamentazione dei rapporti giuridici sottesi ovvero derivanti da quei beni così gestiti, viene disciplinata dalle norme del codice civile e pertanto a quelle ci si rivolge.
L’assenza di un richiamo alla normativa in materia lavoristica ovvero la mancata disciplina dei rapporti di lavoro da parte del legislatore antimafia sia con il D.lgs. 159/2011 sia con la successiva legge 161/2017 integrativa e parzialmente modificativa del precedente decreto, crea non poche difficoltà interpretative all’operatore.
Un primo spunto di riflessione, merita, ad avviso di chi scrive, il tema del licenziamento disciplinare, cioè quella tipologia sanzionatoria assoggettata al regime della contestazione di addebito e all’esercizio del diritto di difesa da parte del lavoratore, disciplinato dall’art. 7 legge 300/70.
Come si contempera il rigido rispetto del procedimento disciplinare con il regime della libera recedibilità nelle aziende colpite da sequestro? Se poi il licenziamento viene dichiarato nullo dal Giudice del lavoro per esempio perché discriminatorio, fattispecie nella quale rimane ferma la tutela reale piena, come si contempla l’esigenza pubblicistica con quella privatistica? E come si contempera il giudicato civilistico che statuisce una reintegra per accertata e dichiarata nullità del provvedimento espulsivo di fronte all’impossibilità di reintegra per esigenze “pubbliche” ?
Se a motivare il licenziamento basta il solo richiamo alla procedura giudiziaria e al decreto di sequestro, – come statuisce la Cassazione che nella sentenza n. 14467 del 10/7/2015 riconosceva legittima la risoluzione del rapporto di lavoro disposta dall’amministratore giudiziario trattandosi di disposizione di ordine pubblico e in quanto applicabile a tutti i contratti in essere e quindi anche al contratto di lavoro – non sarebbero più applicabili le garanzie del procedimento disciplinare, cioè il sistema normativo privatistico verrebbe meno di fronte all’esigenza pubblicistica.
Ciò non significa una tutela tout court dell’interesse pubblicistico, soprattutto, nei casi non infrequenti, dove si pone l’opportunità di valutare l’applicazione o meno del provvedimento espulsivo di un soggetto legato per svariati motivi alle vicende della società colpita dalla misura giudiziaria, nel senso che di fatto l’amministratore giudiziario dovrà valutare caso per caso, attraverso una serie di elementi ( territorialità, vincoli di parentela, intensità del legame parentale, effettiva interferenza del soggetto o dei soggetti con le scelte aziendali), la necessarietà del provvedimento espulsivo oppure la possibilità di applicare per esempio una modifica delle mansioni in virtù anche delle possibilità introdotte dalla nuova formulazione dello ius variadi (D.lgs. n. 81/2015).
La citata pronuncia della Suprema Corte in realtà si sposa con l’art. 41 comma 4 del codice antimafia non modificato dalla novella del 2017 che prevede:”i rapporti giuridici connessi con l’amministrazione giudiziaria sono regolati dal codice civile, ove non espressamente altrimenti disposto”. Ove quindi il recesso, quale ultima ratio, viene applicato è “perché è la legge speciale che lo prevede” (Cass. cit.)
La società sequestrata vive e continua a vivere nel diritto privato, pertanto il procedimento disciplinare trova applicazione anche ai lavoratori dipendenti delle aziende sequestrate e qualora si concluda con esito sfavorevole per il lavoratore, la eventuale precedente sospensione dal servizio, anche se autonoma rispetto al provvedimento espulsivo perché meramente cautelare in attesa del secondo, si salda con il licenziamento tramutandosi in definitiva interruzione del rapporto legittimando la perdita ex tunc del diritto alle retribuzioni a far data dalla sospensione cautelare.
Quanto ai crediti derivanti dai rapporti di lavoro, esauriti o ancora in essere, i lavoratori, in quanto terzi soggetti estranei al reato, meritano la stessa tutela di tutti i terzi che inconsapevolmente e in buona fede hanno o hanno avuto, rapporti con la società sottoposta alla misura giudiziaria.
In tal senso, il novellato art. 104 bis disp.att. c.p.p. prevede che si applicano le disposizioni di cui al libro I, titolo III, del codice antimafia (Dlgs.vo 159/2011 e ss modifiche e integrazioni) nella parte in cui recano la disciplina di nomina e di revoca dell’amministratore giudiziario e gli obblighi di gestione dello stesso. Ma aggiunge che quando il sequestro è disposto ai sensi dell’art. 321 c. 2, quindi in ipotesi di sequestro preventivo volto alla confisca obbligatoria, ai fini della tutela dei terzi nei rapporti con la procedura di liquidazione giudiziaria si applicano le disposizioni di cui al titolo IV del libro I del cit. decreto legislativo, e quindi le disposizioni di cui all’art. 52 che stringe le maglie intorno alla tutela del creditore chiedendogli la dimostrazione della buona fede e dell’inconsapevole affidamento ( lett. b art. 52 ). Quindi in tali ipotesi il terzo/lavoratore non riceve una tutela piena ma è onerato alla dimostrazione dei requisiti anzidetti per aver ragione del suo credito. Viceversa, gli artt. 54 e 54 bis del codice antimafia, costituiscono una evidente deroga all’art 52, dove l’amministratore giudiziario può chiedere l’autorizzazione al giudice delegato dei crediti prededucibili sorti nel corso del procedimento di prevenzione che non devono essere accertati secondo le modalità previste dagli artt. 57, 58 e 59. In pratica il sistema della verifica viene bypassato con l’autorizzazione del Giudice delegato, autorizzazione che equivarrebbe ad una sorta di giudizio sostituivo alla buona fede che garantirebbe a tali crediti una via preferenziale rispetto ai crediti sorti nelle altre ipotesi di confisca. Pensiamo ai lavoratori che hanno lavorato in via continuativa per la società con tutte le caratteristiche di un rapporto di lavoro subordinato senza essere mai stati assunti. Questi dovranno dimostrare, per aver ragione dei loro diritti, davanti al giudice del lavoro i requisiti per ottenere l’accertamento del rapporto di lavoro subordinato e davanti al Giudice delegato la buona fede e l’inconsapevole affidamento per ottenere la liquidazione del credito maturato accertato in via ordinaria.